Attualità
CORONAVIRUS - Il virologo Clementi spiega: "Zangrillo ha ragione, il virus si è indebolito, mascherine? All’aperto sono dannose"
06.06.2020 11:49 di Napoli Magazine Fonte: tpi.it

NAPOLI - Il virologo Massimo Clementi ha rilasciato un'intervista a TPI.

 

Professor Clementi, lei e Zangrillo vi siete ritrovati nella bufera.


(Imperturbabile). Perché nella bufera?


Per lo studio che lei ha fatto, e su cui Zangrillo ha fondato la sua affermazione-shock: “Il virus è clinicamente scomparso”.


Sì, capisco. Perché Alberto Zangrillo dice che il virus è “clinicamente finito”, e usa come parallela leva il mio studio. Qualcuno pensa di metterlo in discussione? Non credo proprio.


E lei si sente sicuro?


Sulla ricerca siamo inattaccabili.


Partiamo quindi da quel lavoro. È vero che dimostra un abbattimento della forza del Coronavirus?


Ripeto, è difficilmente contestabile. Ci sono i dati, i numeri, è tutto scritto, tutto dimostrato. Chi vuole metterlo in discussione deve sobbarcarsi l’onere di trovare un errore nel mio lavoro. E non lo troverà.

 

Leggi Zangrillo, e dietro trovi Clementi. Ovvero Massimo Clementi, ordinario di Microbiologia e Virologia all’università San Raffaele di Milano, virologo jesino, approdato a Milano dopo tanti anni all’estero. Clementi è molto amico di Galli, ma spesso ha idee opposte (sul Covid). Tra i virologi è – per scelta – uno dei meno  mediatici, nei toni è pacato, quasi britannico, ma anche lui alla fine di questa intervista non rinuncia alla zampata: “Bisognerà rivedere le norme sulla mascherina. All’aperto, in questa stagione, è controproducente”.

 

Professor Clementi, ricostruiamo il pezzo che manca, il retroscena della “campagna di Zangrillo”. Come è nato il suo studio comparativo?


In primo luogo ritengo che Alberto Zangrillo abbia basato le sue convinzioni sulla valutazione clinica che aveva fatto e che mi ha successivamente trasferito insieme ad altri clinici del San Raffaele. Quindi tutto è partito da un’evidenza clinica di cui avevo parlato anche con lei.


Ricordiamola.


Da iniziò maggio nei nostri reparti non arrivavano più malati con sintomi gravi.


E poi?


I clinici mi chiedevano anche: “Clementi, quali sono i correlati virologici?”.


Ovvero?


Che cosa è cambiato nel Coronavirus da febbraio a marzo?

 

E lei cosa ha fatto?


In primo luogo ho ipotizzato che ci fosse stata una mutazione del Coronavirus. Sono frequenti. Poi ho pensato di rivolgermi altrove. Anche confrontandomi con colleghi stranieri. Di cercare una chiave per dimostrare con dei dati frutto della ricerca questo cambiamento che registravamo in modo empirico.


E cosa è accaduto?


Ho detto una cosa che non so se sia stata colta. Di tutto il bailamme di virologi pseudovirologi e paravirologi che si stanno esercitando in questo periodo in dotte analisi, il professor Palù di Padova – bravo quanto me – sosteneva l’importanza di studiare la virulenza.

 

E come si misura il tasso di aggressività di un virus?


Bella domanda. Questo è un aspetto abbastanza complesso del Covid19, e di ogni virus, che in sé accomuna caratteristiche diversissime. Provo a tradurlo così: quanto danno fa e quanto il virus si deve replicare per poter fare questo danno? Questo era ed è il tema.


Bisognava trovare un modo – dunque – per misurare qualità e quantità del virus?


Esattamente. Mi ha aiutato un precedente. Trent’anni fa io avevo fatto questo stesso tipo di studi sull’Aids. Ricordo un congresso in cui un collega americano mi chiedeva: “Ma a noi cosa importa quanto virus c’è,  se sappiamo che c’è”.


Non capiva il punto.


Esatto. Proprio come non lo capiscono molti colleghi oggi, quando si impuntano sul tema: “Ma non è mutato”.


Perché dicono: se non è mutata la sequenza non è cambiato.


Invece è assolutamente decisivo, perché questi due parametri ci dicono quanto può essere pericoloso – o meno pericoloso – a parità di diffusione il Covid 19.

 

E quindi come ha scelto di procedere?


Ho fatto esattamente la stessa cosa che avevo fatto con l’Hiv.


Cioè?


Ho preso cento pazienti della prima fase di epidemia e li ho paragonati a cento pazienti della seconda fase.


Li ha “presi” in modo virtuale, ovviamente: “In vitro”.


Certo. Li ho estratti dai campioni della nostra biobanca del San Raffaele.


Chi esattamente?


Cento contagiati della prima metà marzo e cento della seconda di maggio: casi di cui fra l’altro sapevo tutto, perché conoscevo la loro storia clinica. Dopo aver costituito questi due insiemi di campioni omogenei li ho confrontanti.

 

E cosa è emerso?


Beh, una differenza stratosferica.


Su quale unità di misura professore?


Sull’unica che potevo adottare, ovvero il computo relativo alla quantità del virus in ogni singolo tampone.


E di che ordine di grandezza parliamo?


Vuole le proporzioni? Se un tampone del primo gruppo si rileva un indice di 70mila, nel secondo si aggirava intorno a 700!


Molti dicono: sì, d’accordo, ma questo è l’effetto del lockdown.


Attenzione. Io sono molto convinto dell’utilità del lockdown, non solo non lo metto in discussione, ma ritengo che sia stata decisivo nel contenimento della pandemia.


Tuttavia?


Tuttavia questi casi erano riferiti a tamponi raccolti almeno dieci giorni dopo, rispetto a quelli in cui il paziente aveva contratto l’infezione. Questo significa che il virus si era replicato e amplificato nel soggetto infettato a prescindere dalla quantità iniziale che aveva prodotto l’infezione.

 

Vuol dire che quella densità per lei è l’indice della forza del virus?


Senza dubbio. Solo i negazionismi più acerrimi oggi minimizzano l’impatto della stagionalità.


Quindi per lei, come aveva previsto, questo studio conferma anche l’effetto di abbattimento prodotto dall’estate?


Ipotizziamolo come uno dei  motivi che producono l’indebolimento del Covid.


E poi cos’altro c’è?


Il terzo motivo che immagino, ma forse è il più importante, è questo: a me sembra che questo virus si stia adattando all’ospite. Il virus per sopravvivere non deve uccidere il suo ospite.

 

Ma perché la sequenza non cambia?


Il cambiamento per ora è nell’intensità, ma non è ancora avvenuto sul piano genetico. Il virus tuttavia diminuisce la carica virale per adattarsi all’ospite.


Ma quindi il suo studio è una rivoluzione copernicana!


Non esageriamo. Questo studiettino, nel suo piccolo, è solo un primo passo.


Perché usa il diminutivo?


Ci sono ancora pochi pazienti. Ha fatto un botto notevole – se mi consente il termine prosaico – a livello intenzionale.

 

Non mi ha ancora detto esplicitamente se condivide la frase-shock  di Zangrillo.


Sì, giusto dire che il virus è clinicamente finito. Lo diciamo noi che abbiamo visto morire. Perché adesso questi malati gravi non ci sono più, ed è un fatto.


E cosa serve allora per confermare lo studio?


Dovrebbe accadere che questo fenomeno si ripetesse negli altri Stati europei e anche anche negli Stati Uniti.


Dove ci sono almeno tre settimane di ritardo.


Esatto: ma dal dialogo con i colleghi risulta che in Florida, dove hanno fatto un lockdown soft, si stanno osservando le stesse cose. In Spagna idem. In Francia anche.

 

Si dovrebbe ripetere il test Clementi in questi paesi.


Proprio così. Dobbiamo mettere insieme cinque studi da mille pazienti ciascuno e allora avremmo una prova inattaccabile che il principio viene verificato. Questo è quanto sto programmando.


Ottimo. Passiamo alle conseguenze che lei ipotizza.


In fondo è semplice. Più dimostri che il virus si attenua più dimostri che ci puoi convivere.


Lei ha in mente un precedente?


Sì, ad esempio il caso dell’epidemia del 2009, con il H1N1 in Messico.


Riassumiamo per i profani.


Esplode in maniera rapida e devastante. Fu dichiarato subito pandemia dall’Oms. Aveva alti tassi di mortalità…


E oggi?


Oggi ce lo ritroviamo buono-buono insieme agli altri virus influenzali. Ma non uccide più.

 

Lei lo ha definito un “virus Frankenstein”. In che senso?


È un virus che pare prodotto da un collage: un pezzo umano, un pezzo suino.


Tutto è avvenuto in tempi rapidissimi.


Esatto. Lo vorrei ricordare a chi dice: “Ci vorranno sessant’anni prima di poter convivere con il Covid”.


Lei usa l’impersonale, ma si riferisce al suo grande amico, il professor Galli.


Sì, ma non solo a lui. Perché quello si è adattato in tre mesi.


E poi dove è finito?


Bella domanda. Sembra che si sia è dissolto.

 

Quindi non è scontata nemmeno la celebratissima “seconda ondata”.


Mettiamola così. Secondo me nessuno può dire che torna. O che non torna. E potrebbe anche non tornare.


Altro esempio?


La Sars. Esplose, fino  a giugno infettò e poi anche questa infezione scomparve.


Dove è finito il virus della Sars?


(Ride di gusto). Ah ah ah Bella domanda. Quando me la fanno i miei studenti io indico loro il mio laboratorio con il livello P3.


Perché si può trovare lì?


Esatto. In frigorifero, però.


Perché lei ai suoi studenti dice anche che i virus non sono palline da ping pong.


Proprio così: un virus lo devi capire. Se pensi che per prevedere le sue mosse basti un algoritmo non riesci a spiegare nulla di quello che abbiamo appena ricordato.

 

Quando potremo togliere – se è così – le misure di distanziamento sociale?


Questo è un tema cruciale. Noi abbiamo numeri “normali” in tutta Italia. Tutto il resto – invece – deriva dall’epidemia lombarda, che come è noto ha una storia a sé.


Ad esempio?


Un numero di contagiati enorme, questo ormai non lo contesta più nessuno, con una grande distribuzione  “regionalizzata”.


Cioè?


Dal punto di vista della diffusione: ci sono differenze enormi, anche tra una provincia e l’altra.


Cremona, Bergamo, Brescia…


Esatto. Tuttavia anche il professor Remuzzi, da Bergamo, ci dice: “La nostra terapia intensiva è vuota”.


Anche lì la virulenza si è abbattuta.


Senza dubbio.

ULTIMISSIME ATTUALITÀ
TUTTE LE ULTIMISSIME
NOTIZIE SUCCESSIVE >>>
CORONAVIRUS - Il virologo Clementi spiega: "Zangrillo ha ragione, il virus si è indebolito, mascherine? All’aperto sono dannose"

di Napoli Magazine

06/06/2024 - 11:49

NAPOLI - Il virologo Massimo Clementi ha rilasciato un'intervista a TPI.

 

Professor Clementi, lei e Zangrillo vi siete ritrovati nella bufera.


(Imperturbabile). Perché nella bufera?


Per lo studio che lei ha fatto, e su cui Zangrillo ha fondato la sua affermazione-shock: “Il virus è clinicamente scomparso”.


Sì, capisco. Perché Alberto Zangrillo dice che il virus è “clinicamente finito”, e usa come parallela leva il mio studio. Qualcuno pensa di metterlo in discussione? Non credo proprio.


E lei si sente sicuro?


Sulla ricerca siamo inattaccabili.


Partiamo quindi da quel lavoro. È vero che dimostra un abbattimento della forza del Coronavirus?


Ripeto, è difficilmente contestabile. Ci sono i dati, i numeri, è tutto scritto, tutto dimostrato. Chi vuole metterlo in discussione deve sobbarcarsi l’onere di trovare un errore nel mio lavoro. E non lo troverà.

 

Leggi Zangrillo, e dietro trovi Clementi. Ovvero Massimo Clementi, ordinario di Microbiologia e Virologia all’università San Raffaele di Milano, virologo jesino, approdato a Milano dopo tanti anni all’estero. Clementi è molto amico di Galli, ma spesso ha idee opposte (sul Covid). Tra i virologi è – per scelta – uno dei meno  mediatici, nei toni è pacato, quasi britannico, ma anche lui alla fine di questa intervista non rinuncia alla zampata: “Bisognerà rivedere le norme sulla mascherina. All’aperto, in questa stagione, è controproducente”.

 

Professor Clementi, ricostruiamo il pezzo che manca, il retroscena della “campagna di Zangrillo”. Come è nato il suo studio comparativo?


In primo luogo ritengo che Alberto Zangrillo abbia basato le sue convinzioni sulla valutazione clinica che aveva fatto e che mi ha successivamente trasferito insieme ad altri clinici del San Raffaele. Quindi tutto è partito da un’evidenza clinica di cui avevo parlato anche con lei.


Ricordiamola.


Da iniziò maggio nei nostri reparti non arrivavano più malati con sintomi gravi.


E poi?


I clinici mi chiedevano anche: “Clementi, quali sono i correlati virologici?”.


Ovvero?


Che cosa è cambiato nel Coronavirus da febbraio a marzo?

 

E lei cosa ha fatto?


In primo luogo ho ipotizzato che ci fosse stata una mutazione del Coronavirus. Sono frequenti. Poi ho pensato di rivolgermi altrove. Anche confrontandomi con colleghi stranieri. Di cercare una chiave per dimostrare con dei dati frutto della ricerca questo cambiamento che registravamo in modo empirico.


E cosa è accaduto?


Ho detto una cosa che non so se sia stata colta. Di tutto il bailamme di virologi pseudovirologi e paravirologi che si stanno esercitando in questo periodo in dotte analisi, il professor Palù di Padova – bravo quanto me – sosteneva l’importanza di studiare la virulenza.

 

E come si misura il tasso di aggressività di un virus?


Bella domanda. Questo è un aspetto abbastanza complesso del Covid19, e di ogni virus, che in sé accomuna caratteristiche diversissime. Provo a tradurlo così: quanto danno fa e quanto il virus si deve replicare per poter fare questo danno? Questo era ed è il tema.


Bisognava trovare un modo – dunque – per misurare qualità e quantità del virus?


Esattamente. Mi ha aiutato un precedente. Trent’anni fa io avevo fatto questo stesso tipo di studi sull’Aids. Ricordo un congresso in cui un collega americano mi chiedeva: “Ma a noi cosa importa quanto virus c’è,  se sappiamo che c’è”.


Non capiva il punto.


Esatto. Proprio come non lo capiscono molti colleghi oggi, quando si impuntano sul tema: “Ma non è mutato”.


Perché dicono: se non è mutata la sequenza non è cambiato.


Invece è assolutamente decisivo, perché questi due parametri ci dicono quanto può essere pericoloso – o meno pericoloso – a parità di diffusione il Covid 19.

 

E quindi come ha scelto di procedere?


Ho fatto esattamente la stessa cosa che avevo fatto con l’Hiv.


Cioè?


Ho preso cento pazienti della prima fase di epidemia e li ho paragonati a cento pazienti della seconda fase.


Li ha “presi” in modo virtuale, ovviamente: “In vitro”.


Certo. Li ho estratti dai campioni della nostra biobanca del San Raffaele.


Chi esattamente?


Cento contagiati della prima metà marzo e cento della seconda di maggio: casi di cui fra l’altro sapevo tutto, perché conoscevo la loro storia clinica. Dopo aver costituito questi due insiemi di campioni omogenei li ho confrontanti.

 

E cosa è emerso?


Beh, una differenza stratosferica.


Su quale unità di misura professore?


Sull’unica che potevo adottare, ovvero il computo relativo alla quantità del virus in ogni singolo tampone.


E di che ordine di grandezza parliamo?


Vuole le proporzioni? Se un tampone del primo gruppo si rileva un indice di 70mila, nel secondo si aggirava intorno a 700!


Molti dicono: sì, d’accordo, ma questo è l’effetto del lockdown.


Attenzione. Io sono molto convinto dell’utilità del lockdown, non solo non lo metto in discussione, ma ritengo che sia stata decisivo nel contenimento della pandemia.


Tuttavia?


Tuttavia questi casi erano riferiti a tamponi raccolti almeno dieci giorni dopo, rispetto a quelli in cui il paziente aveva contratto l’infezione. Questo significa che il virus si era replicato e amplificato nel soggetto infettato a prescindere dalla quantità iniziale che aveva prodotto l’infezione.

 

Vuol dire che quella densità per lei è l’indice della forza del virus?


Senza dubbio. Solo i negazionismi più acerrimi oggi minimizzano l’impatto della stagionalità.


Quindi per lei, come aveva previsto, questo studio conferma anche l’effetto di abbattimento prodotto dall’estate?


Ipotizziamolo come uno dei  motivi che producono l’indebolimento del Covid.


E poi cos’altro c’è?


Il terzo motivo che immagino, ma forse è il più importante, è questo: a me sembra che questo virus si stia adattando all’ospite. Il virus per sopravvivere non deve uccidere il suo ospite.

 

Ma perché la sequenza non cambia?


Il cambiamento per ora è nell’intensità, ma non è ancora avvenuto sul piano genetico. Il virus tuttavia diminuisce la carica virale per adattarsi all’ospite.


Ma quindi il suo studio è una rivoluzione copernicana!


Non esageriamo. Questo studiettino, nel suo piccolo, è solo un primo passo.


Perché usa il diminutivo?


Ci sono ancora pochi pazienti. Ha fatto un botto notevole – se mi consente il termine prosaico – a livello intenzionale.

 

Non mi ha ancora detto esplicitamente se condivide la frase-shock  di Zangrillo.


Sì, giusto dire che il virus è clinicamente finito. Lo diciamo noi che abbiamo visto morire. Perché adesso questi malati gravi non ci sono più, ed è un fatto.


E cosa serve allora per confermare lo studio?


Dovrebbe accadere che questo fenomeno si ripetesse negli altri Stati europei e anche anche negli Stati Uniti.


Dove ci sono almeno tre settimane di ritardo.


Esatto: ma dal dialogo con i colleghi risulta che in Florida, dove hanno fatto un lockdown soft, si stanno osservando le stesse cose. In Spagna idem. In Francia anche.

 

Si dovrebbe ripetere il test Clementi in questi paesi.


Proprio così. Dobbiamo mettere insieme cinque studi da mille pazienti ciascuno e allora avremmo una prova inattaccabile che il principio viene verificato. Questo è quanto sto programmando.


Ottimo. Passiamo alle conseguenze che lei ipotizza.


In fondo è semplice. Più dimostri che il virus si attenua più dimostri che ci puoi convivere.


Lei ha in mente un precedente?


Sì, ad esempio il caso dell’epidemia del 2009, con il H1N1 in Messico.


Riassumiamo per i profani.


Esplode in maniera rapida e devastante. Fu dichiarato subito pandemia dall’Oms. Aveva alti tassi di mortalità…


E oggi?


Oggi ce lo ritroviamo buono-buono insieme agli altri virus influenzali. Ma non uccide più.

 

Lei lo ha definito un “virus Frankenstein”. In che senso?


È un virus che pare prodotto da un collage: un pezzo umano, un pezzo suino.


Tutto è avvenuto in tempi rapidissimi.


Esatto. Lo vorrei ricordare a chi dice: “Ci vorranno sessant’anni prima di poter convivere con il Covid”.


Lei usa l’impersonale, ma si riferisce al suo grande amico, il professor Galli.


Sì, ma non solo a lui. Perché quello si è adattato in tre mesi.


E poi dove è finito?


Bella domanda. Sembra che si sia è dissolto.

 

Quindi non è scontata nemmeno la celebratissima “seconda ondata”.


Mettiamola così. Secondo me nessuno può dire che torna. O che non torna. E potrebbe anche non tornare.


Altro esempio?


La Sars. Esplose, fino  a giugno infettò e poi anche questa infezione scomparve.


Dove è finito il virus della Sars?


(Ride di gusto). Ah ah ah Bella domanda. Quando me la fanno i miei studenti io indico loro il mio laboratorio con il livello P3.


Perché si può trovare lì?


Esatto. In frigorifero, però.


Perché lei ai suoi studenti dice anche che i virus non sono palline da ping pong.


Proprio così: un virus lo devi capire. Se pensi che per prevedere le sue mosse basti un algoritmo non riesci a spiegare nulla di quello che abbiamo appena ricordato.

 

Quando potremo togliere – se è così – le misure di distanziamento sociale?


Questo è un tema cruciale. Noi abbiamo numeri “normali” in tutta Italia. Tutto il resto – invece – deriva dall’epidemia lombarda, che come è noto ha una storia a sé.


Ad esempio?


Un numero di contagiati enorme, questo ormai non lo contesta più nessuno, con una grande distribuzione  “regionalizzata”.


Cioè?


Dal punto di vista della diffusione: ci sono differenze enormi, anche tra una provincia e l’altra.


Cremona, Bergamo, Brescia…


Esatto. Tuttavia anche il professor Remuzzi, da Bergamo, ci dice: “La nostra terapia intensiva è vuota”.


Anche lì la virulenza si è abbattuta.


Senza dubbio.

Fonte: tpi.it