Calcio
ROMA - Capitano silenzioso, bandiera: il calcio di Agostino Di Bartolomei
31.05.2020 19:45 di Napoli Magazine Fonte: Gianlucadimarzio.com

Il 30 maggio 1994 ci lasciava Agostino Di Bartolomei. I suoi ex compagni Chierico, Giannini e Vierchowod ce lo raccontano

 

Pensai che quella notizia fosse uno scherzo, ma poi mi resi conto della realtà. E rimasi sconcertato. Mi sembrò di essere stato investito”. Odoacre Chierico ha condiviso allenamenti, avventure e battaglie con Agostino Di Bartolomei. Gioie e dolori, storie di vita. Quella che, il 30 maggio 1994, Agostino ha deciso di togliersi con un colpo di pistola al petto: “Uno dei giorni più tristi per tutto lo sport italiano. Il solo pensiero di perdere una persona del genere, in quella maniera, è qualcosa di irreale”. A 26 anni di distanza, ai nostri microfoni, la voce di Chierico è ancora spezzata.

 

Romano, romanista, capitano. Di Bartolomei è stato uno dei primi e dei principali portatori della “romanità” tanto cara ai tifosi giallorossi. Poche parole, tanti fatti. “Ago” sapeva farlo con naturalezza. E con tutti, anche con un ragazzo che nei primi anni ’80 si alternava tra Primavera e prima squadra: “Era un punto di riferimento per ognuno di noi, grandi e giovani” racconta a GianlucaDiMarzio.com Giuseppe Giannini, anche lui romano, romanista e capitano giallorosso per nove stagioni: “Agostino era un po’ chiuso, ma quando bisognava essere presenti c’era sempre”.
 
“Si preoccupava di tutti, dai giocatori fino ai magazzinieri. Qualsiasi problema lo faceva presente alla società, tutto nell’interesse della Roma. Parlava poco ma con i compagni scherzava spesso, sempre con la sua classe”. Misterioso all’apparenza, tutt’altro nella realtà dei fatti. A confermarcelo è anche Pietro Vierchowod, pilastro di quella Roma che nell'83 vinse il suo secondo scudetto a 40 anni di distanza dal primo: “Arrivavo in prestito dalla Sampdoria, e da esterno Agostino mi sembrava una persona molto chiusa. Ma quando l'ho conosciuto era l'opposto. Disponibile, simpatico. Si faceva in quattro per aiutarti. Forse si mostrava chiuso quando voleva mettersi al riparo da alcune situazioni”.
 
Al riparo, sì. Ma, secondo Chierico, senza volersi mai nascondere: “Era timido ed educato, e questo tipo di persone vengono spesso viste come deboli. Ma per me è il contrario. Can che abbaia non morde. Agostino parlava poco, non aveva bisogno di abbaiare”.
“Con lui bastava uno sguardo, quel poco che diceva ti faceva capire tutto. Forse un po’ lento, ma tutte le altre sue caratteristiche lo rendevano un campione”. Vierchowod non ha dubbi: “Falcao era un fenomeno, ma quella Roma era stata molto costruita su Di Bartolomei”. Pietro in difesa, Agostino poco più in là. Per conquistare l’Italia: “Doveva essere il classico libero e stare dietro di me, ma giocavamo a zona e lui era posizionato davanti alla difesa. Fece un anno pazzesco, segnando anche 9 gol”.
 
Da vero e proprio regista: “Io gli davo la palla, lui alzava la testa, faceva un lancio di 50 metri e la metteva sul piede del compagno. In quella squadra e in quella posizione era l'ideale. Se in Nazionale non ha avuto successo è solo perché a Bearzot non piaceva per il proprio gioco. Era il classico calciatore che stava bene nel suo contesto”. Non solo calcistico. “Agostino non rappresentava solamente la squadra, ma l’intera città di Roma. E questo, unito alle sue vittorie, lo ha reso un simbolo per i tifosi”.
 
Tre Coppe Italia e uno scudetto, ma non solo. Di Bartolomei, con i suoi compagni, è andato vicino a scrivere la pagina più importante della storia della Roma. Quella finale di Coppa Campioni persa contro il Liverpool. Ai rigori. Allo stadio Olimpico. Una cosa difficile da accettare per chi, come Agostino, portava i colori giallorossi come propria ragione di vita. Dopo quella partita si è parlato di litigi, urla, soprattutto tra Ago e chi aveva sbagliato o non si era presentato dal dischetto: “Tutte cazzate”. Chierico è lapidario. “Nessuno ha detto niente a nessuno, nello spogliatoio non è volata una mosca. Tutti sapevamo quello che era successo, quali erano stati i nostri errori e i meriti del Liverpool”.
 
“Un sogno svanito, certo. Ma in quel momento di silenzio e di pianto si sono rafforzati ancora di più i nostri rapporti. Nessuno ha mai provato a incolpare nessun'altro. Eravamo una banda di uomini incredibili, e c'erano anche mister Liedholm e il presidente Dino Viola che ci davano l'esempio e dettavano le regole. Hanno creato un gruppo fantastico”. Con Agostino in testa: “Lui era il capitano e ci rappresentava, ma in quella squadra non c'erano leader. O meglio, ce n'erano tanti. Ognuno lo era alla propria maniera, e tutti sapevano l'importanza degli altri”. Rialzarsi dopo una caduta del genere, in effetti, non era certo facile. Una caduta avvenuta sempre in quella solita, unica e terribile data.
 

30 maggio ’84-30 maggio ’94, torniamo al principio parlando della fine. Se per uno strano scherzo del destino o per qualcosa di più, non è dato saperlo: “Quel giorno di 26 anni fa è come se lo vivessi oggi. Fui invaso da una sensazione che non riesco a descrivere, nemmeno ora che sono diventato più maturo. Agostino per noi era un esempio da imitare. E stava bene, aveva una sua identità e personalità. Era introverso, ma nello spogliatoio aveva i suoi spazi e il suo modo di interagire e scherzare”. Difficile da raccontare per chi, come Chierico, fino a qualche anno prima giocava a carte in stanza con Ago. Due strade che si sono divise con il trasferimento di Di Bartolomei al Milan, prima di accasarsi al Cesena e concludere la propria carriera alla Salernitana, portando i granata in Serie B dopo 23 anni.

Da lì una nuova scelta di vita, andando a vivere a Castellabate, vicino Salerno, col sogno di aprire una scuola calcio: "Nella mia testa Agostino era l'uomo più felice del mondo. Ma mi sbagliavo. E il rammarico più grande è quello di non aver mai saputo o capito niente, anche perché in quel periodo non lo frequentavamo. Sapevo solo che lui sarebbe stato felice di rientrare nella Roma. Non capisco perché non chiamò nemmeno un compagno. Magari anche davanti a un caffè avremmo potuto capire qualcosa". Un'immagine ricorrente: "Mi viene in mente la sua foto, il suo modo di comportarsi, il suo atteggiamento. Poi penso a quello che è successo e non ci credo, è una realtà che non riesco ad accettare”. Come tutti. “È inspiegabile. Come poteva Agostino fare un gesto così violento nei suoi confronti?”.

 

Agostino Di Bartolomei Roma wikimedia commons

 
A certe domande non ci sarà mai una risposta. Si può solo ricordare Agostino Di Bartolomei per quello che ha rappresentato e lasciato: “L'esempio di un giocatore di una serietà, di una professionalità e di una dedizione che in pochi hanno. È stata una fortuna averlo come capitano e come compagno di squadra”. Un uomo che amava il suo popolo, una bandiera ancora oggi acclamata dal suo stadio. Un leader silenzioso. D’altronde, non sempre il carisma si trasmette attraverso le parole. Nel calcio, come nella vita, sono soprattutto i gesti e i comportamenti a fare la differenza.

Ciao, Ago. Oggi come allora. Con le stesse, toccanti, parole che scrisse Gianni Mura: “I veri capitani possono morire o anche scegliere di morire, ma dimenticarli è impossibile”.

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ROMA - Capitano silenzioso, bandiera: il calcio di Agostino Di Bartolomei

di Napoli Magazine

31/05/2024 - 19:45

Il 30 maggio 1994 ci lasciava Agostino Di Bartolomei. I suoi ex compagni Chierico, Giannini e Vierchowod ce lo raccontano

 

Pensai che quella notizia fosse uno scherzo, ma poi mi resi conto della realtà. E rimasi sconcertato. Mi sembrò di essere stato investito”. Odoacre Chierico ha condiviso allenamenti, avventure e battaglie con Agostino Di Bartolomei. Gioie e dolori, storie di vita. Quella che, il 30 maggio 1994, Agostino ha deciso di togliersi con un colpo di pistola al petto: “Uno dei giorni più tristi per tutto lo sport italiano. Il solo pensiero di perdere una persona del genere, in quella maniera, è qualcosa di irreale”. A 26 anni di distanza, ai nostri microfoni, la voce di Chierico è ancora spezzata.

 

Romano, romanista, capitano. Di Bartolomei è stato uno dei primi e dei principali portatori della “romanità” tanto cara ai tifosi giallorossi. Poche parole, tanti fatti. “Ago” sapeva farlo con naturalezza. E con tutti, anche con un ragazzo che nei primi anni ’80 si alternava tra Primavera e prima squadra: “Era un punto di riferimento per ognuno di noi, grandi e giovani” racconta a GianlucaDiMarzio.com Giuseppe Giannini, anche lui romano, romanista e capitano giallorosso per nove stagioni: “Agostino era un po’ chiuso, ma quando bisognava essere presenti c’era sempre”.
 
“Si preoccupava di tutti, dai giocatori fino ai magazzinieri. Qualsiasi problema lo faceva presente alla società, tutto nell’interesse della Roma. Parlava poco ma con i compagni scherzava spesso, sempre con la sua classe”. Misterioso all’apparenza, tutt’altro nella realtà dei fatti. A confermarcelo è anche Pietro Vierchowod, pilastro di quella Roma che nell'83 vinse il suo secondo scudetto a 40 anni di distanza dal primo: “Arrivavo in prestito dalla Sampdoria, e da esterno Agostino mi sembrava una persona molto chiusa. Ma quando l'ho conosciuto era l'opposto. Disponibile, simpatico. Si faceva in quattro per aiutarti. Forse si mostrava chiuso quando voleva mettersi al riparo da alcune situazioni”.
 
Al riparo, sì. Ma, secondo Chierico, senza volersi mai nascondere: “Era timido ed educato, e questo tipo di persone vengono spesso viste come deboli. Ma per me è il contrario. Can che abbaia non morde. Agostino parlava poco, non aveva bisogno di abbaiare”.
“Con lui bastava uno sguardo, quel poco che diceva ti faceva capire tutto. Forse un po’ lento, ma tutte le altre sue caratteristiche lo rendevano un campione”. Vierchowod non ha dubbi: “Falcao era un fenomeno, ma quella Roma era stata molto costruita su Di Bartolomei”. Pietro in difesa, Agostino poco più in là. Per conquistare l’Italia: “Doveva essere il classico libero e stare dietro di me, ma giocavamo a zona e lui era posizionato davanti alla difesa. Fece un anno pazzesco, segnando anche 9 gol”.
 
Da vero e proprio regista: “Io gli davo la palla, lui alzava la testa, faceva un lancio di 50 metri e la metteva sul piede del compagno. In quella squadra e in quella posizione era l'ideale. Se in Nazionale non ha avuto successo è solo perché a Bearzot non piaceva per il proprio gioco. Era il classico calciatore che stava bene nel suo contesto”. Non solo calcistico. “Agostino non rappresentava solamente la squadra, ma l’intera città di Roma. E questo, unito alle sue vittorie, lo ha reso un simbolo per i tifosi”.
 
Tre Coppe Italia e uno scudetto, ma non solo. Di Bartolomei, con i suoi compagni, è andato vicino a scrivere la pagina più importante della storia della Roma. Quella finale di Coppa Campioni persa contro il Liverpool. Ai rigori. Allo stadio Olimpico. Una cosa difficile da accettare per chi, come Agostino, portava i colori giallorossi come propria ragione di vita. Dopo quella partita si è parlato di litigi, urla, soprattutto tra Ago e chi aveva sbagliato o non si era presentato dal dischetto: “Tutte cazzate”. Chierico è lapidario. “Nessuno ha detto niente a nessuno, nello spogliatoio non è volata una mosca. Tutti sapevamo quello che era successo, quali erano stati i nostri errori e i meriti del Liverpool”.
 
“Un sogno svanito, certo. Ma in quel momento di silenzio e di pianto si sono rafforzati ancora di più i nostri rapporti. Nessuno ha mai provato a incolpare nessun'altro. Eravamo una banda di uomini incredibili, e c'erano anche mister Liedholm e il presidente Dino Viola che ci davano l'esempio e dettavano le regole. Hanno creato un gruppo fantastico”. Con Agostino in testa: “Lui era il capitano e ci rappresentava, ma in quella squadra non c'erano leader. O meglio, ce n'erano tanti. Ognuno lo era alla propria maniera, e tutti sapevano l'importanza degli altri”. Rialzarsi dopo una caduta del genere, in effetti, non era certo facile. Una caduta avvenuta sempre in quella solita, unica e terribile data.
 

30 maggio ’84-30 maggio ’94, torniamo al principio parlando della fine. Se per uno strano scherzo del destino o per qualcosa di più, non è dato saperlo: “Quel giorno di 26 anni fa è come se lo vivessi oggi. Fui invaso da una sensazione che non riesco a descrivere, nemmeno ora che sono diventato più maturo. Agostino per noi era un esempio da imitare. E stava bene, aveva una sua identità e personalità. Era introverso, ma nello spogliatoio aveva i suoi spazi e il suo modo di interagire e scherzare”. Difficile da raccontare per chi, come Chierico, fino a qualche anno prima giocava a carte in stanza con Ago. Due strade che si sono divise con il trasferimento di Di Bartolomei al Milan, prima di accasarsi al Cesena e concludere la propria carriera alla Salernitana, portando i granata in Serie B dopo 23 anni.

Da lì una nuova scelta di vita, andando a vivere a Castellabate, vicino Salerno, col sogno di aprire una scuola calcio: "Nella mia testa Agostino era l'uomo più felice del mondo. Ma mi sbagliavo. E il rammarico più grande è quello di non aver mai saputo o capito niente, anche perché in quel periodo non lo frequentavamo. Sapevo solo che lui sarebbe stato felice di rientrare nella Roma. Non capisco perché non chiamò nemmeno un compagno. Magari anche davanti a un caffè avremmo potuto capire qualcosa". Un'immagine ricorrente: "Mi viene in mente la sua foto, il suo modo di comportarsi, il suo atteggiamento. Poi penso a quello che è successo e non ci credo, è una realtà che non riesco ad accettare”. Come tutti. “È inspiegabile. Come poteva Agostino fare un gesto così violento nei suoi confronti?”.

 

Agostino Di Bartolomei Roma wikimedia commons

 
A certe domande non ci sarà mai una risposta. Si può solo ricordare Agostino Di Bartolomei per quello che ha rappresentato e lasciato: “L'esempio di un giocatore di una serietà, di una professionalità e di una dedizione che in pochi hanno. È stata una fortuna averlo come capitano e come compagno di squadra”. Un uomo che amava il suo popolo, una bandiera ancora oggi acclamata dal suo stadio. Un leader silenzioso. D’altronde, non sempre il carisma si trasmette attraverso le parole. Nel calcio, come nella vita, sono soprattutto i gesti e i comportamenti a fare la differenza.

Ciao, Ago. Oggi come allora. Con le stesse, toccanti, parole che scrisse Gianni Mura: “I veri capitani possono morire o anche scegliere di morire, ma dimenticarli è impossibile”.

Fonte: Gianlucadimarzio.com